Quest’anno, il 25 aprile ricorre l’ottantesimo anniversario dalla liberazione dell’Italia dal nazifascismo. Dopo tutto questo tempo la situazione politica in cui versa il nostro paese ci costringe a dire che la memoria di quel grande atto popolare di rivolta all’oppressione nazifascista e al regime economico e sociale che la aveva promossa e consentita, non è affatto pacificata. Al contrario la necessità della ribellione al regime che infine si è instaurato dopo la Resistenza è di bruciante attualità.
Di: Partito Comunista dei Lavoratori
La Resistenza combatté duramente tre anni per sconfiggere il nazifascismo. Ma il regime che ne scaturì, il regime democratico borghese, fu quello che si incaricò di restaurare il capitalismo ridotto in pezzi e di restituire le fabbriche ai padroni. Proprio quei padroni che avevano favorito l’ascesa del fascismo e l’instaurarsi del suo regime, per spezzare la combattività della classe operaia del nord dopo il Biennio rosso (1919-1920), con un’ondata di scioperi e occupazioni di fabbrica guidati dai consigli dei lavoratori e difesi dalla guardia rossa, e la forza delle leghe bracciantili capaci di affrontare a viso aperto i proprietari latifondisti nelle campagne della Pianura Padana e del Centro Italia.
Perciò al regime capitalista fascista segui il regime democratico pur sempre capitalista la cui continuità si manifesto anche nelle istituzioni amministrative e giudiziarie dove il personale rimase in massima parte lo stesso.
DAL 1943 AL 1945 E OLTRE: LA POSSIBILITA’ DELLA RIVOLUZIONE ITALIANA
I grandi scioperi del marzo 1943 che videro la partecipazione di oltre 100000 lavoratori delle fabbriche torinesi senza che le squadracce fasciste potessero fermarli, annunciarono la fine del regime fascista.
Alla fine di luglio ci fu la caduta di Mussolini. L’8 settembre il governo italiano guidato dal generale Pietro Badoglio firmò l’armistizio con le forze alleate
Nei giorni successivi vi fu la fuga del re Vittorio Emanuele III, dei vertici militari e del capo del governo Pietro Badoglio. Lo stato italiano rimaneva così senza guida ed in stato di disfacimento. I comandi militari furono lasciati senza ordini alla mercè delle forze tedesche che occupavano la gran parte del centro e nord Italia
Il giorno dopo la proclamazione dell’armistizio si formò il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), l’organo di direzione della Resistenza che aveva l’obbiettivo di contrapporsi alle forze tedesche e alle milizie fasciste della neoformata Repubblica di Salo
Il CLN era costituito da partiti che facevano riferimento alla classe operaia, come il Partito Comunista Italiano (PCI) e il Partito socialista italiano di unità proletaria (PSIUP), e partiti borghesi come il Partito d’azione, il partito della Democrazia Cristiana, il partito della Democrazia e Lavoro e rappresentanti del partito liberale. In definitiva si trattava di un organo di fronte popolare.
Questo organo doveva dirigere le azioni militari dei partigiani (i membri della resistenza) in tutte le zone occupate dai tedeschi. Ma il su compito politico era anche quello di controllare che il movimento partigiano che si stava irrobustendo per l’afflusso di giovani operai, contadini e studenti e di ex militari, rimanesse fermamente nell’alveo delle compatibilità “democratiche” e non costituisse una minaccia per l’ordine borghese che si voleva restaurare.
Ciò era tanto più necessario vista la composizione prevalente delle brigate partigiane. Le brigate più numerose, le Brigate Garibaldi e i Gruppi di Azione Patriottica (GAP), erano infatti costituite in maggioranza da operai e contadini nei quali lampeggiava ancora lo spirito di giustizia e di vendetta covato per 20 anni non solo contro i fascisti ma anche contro chi li aveva finanziati, il padronato industriale ed agricolo.
È del tutto evidente che una direzione rivoluzionaria avrebbe potuto contare sulla forza della maggioranza dei partigiani e sul consenso che questi detenevano tra le masse popolari del Paese. In questo modo avrebbe potuto innescare un processo rivoluzionario tanto più facilitato dal momento che, come abbiamo visto, lo stato borghese era completamente disarticolato ed in balia degli eventi
Purtroppo, questa direzione mancò per il tradimento del principale Partito della class operaia italiana: il Partito Comunista Italiano (PCI)
IL TRADIMENTO DEL PCI DI TOGLIATTI
Il PCI tradì completamente lo spirito rivoluzionario dei partigiani. Togliatti, il suo massimo dirigente, aveva ricevuto precise indicazioni da Stalin, per il quale in Italia era necessario escludere ogni possibilità rivoluzionaria ed invece chiamare operai e contadini a collaborare, con il loro sacrificio, alla ricostruzione dello Stato Borghese.
La collaborazione di classe di Togliatti lo portò ad entrare nel 1944 nell’esecutivo del criminale di guerra Pietro Badoglio, che governava il Regno del Sud, poi nel governo Bonomi ed infine come ministro di grazia e giustizia nei governi successivi alla liberazione.
Da ministro si adoperò con così tanto zelo filo-borghese da promuovere l’amnistia per i fascisti e lasciare che i partigiani fossero giudicati dagli stessi tribunali, autentici aguzzini, al servizio del vecchio regime. Infine, si pronunciò a favore dei Patti Lateranensi che stabilirono il rapporto tra stato Chiesa cattolica durante il regime fascista e che saranno inseriti perfino nella Costituzione. Anche su questo terreno veniva sancita la continuità del rapporto privilegiato tra la Chiesa e lo Stato, accontentandone i settori più reazionari.
Al contrario di molte ricostruzioni interessate, prevalentemente provenienti da storici vicini al Partito Comunista, l’azione di Togliatti e di tutta la direzione del PCI, compresa la sedicente parte più a sinistra, consistente nella politica di avvicinamento ed ingresso nel governo della borghesia, non fu un atto di autonomia dallo stalinismo e dalla politica sovietica. Invece rappresentò la fedele osservanza della politica di Stalin dato che questi aveva concordato nella conferenza di Jalta con le potenze imperialiste vincitrici, che l’Italia ricadesse sotto il campo di influenza americano
Nonostante le promesse di un futuro migliore per operi e contadini, all’indomani della ricostruzione dello stato capitalista e imperialista, la risultante di questa politica fu l’abbandono delle loro aspirazioni e la condanna ad una nuova stagione di sfruttamento.
Gli ultimi disperati fuochi partigiani spentisi dopo il 1945, abbandonati a sé stessi e alla repressione borghese, non poterono invertire la dinamica restaurazionista avvallata dai partiti della classe lavoratrice.
Mentre il dominio padronale in fabbrica e sui campi, l’intensificazione del lavoro, i salari bassi, le punizioni severe per chi si ribellava costituivano allora la condizione di vita delle lavoratrici e dei lavoratori negli anni successivi alla Liberazione, il PCI sviluppò sempre più profondamente la propria propensione governista che caratterizzò tutta la sua storia. L’ambizione di tornare un giorno al governo, il governo di una potenza imperialista, fu la bussola della sua politica successiva ma anche il terreno fertile per quello che sarà il trasformismo del suo gruppo dirigente. Dopo la caduta dell’Unione Sovietica divenne allora naturale la liquidazione del vecchio PCI e l’approdo ad un partito integralmente borghese com’è oggi il Partito Democratico, candidato quale rappresentate efficiente degli interessi del capitalismo e dell’imperialismo italiani
IL CONTESTO ODIERNO
Il tradimento della rivoluzione italiana, la mancata epurazione dei fascisti dagli organi dello stato (tribunali, questure) e dei suoi apparti amministrativi, le persecuzioni giudiziarie a danno dei partigiani costituirono la condizione necessaria per la continuità del fascismo italiano anche sotto l’egida della repubblica borghese e della sua Costituzione “antifascista”.
Con queste premesse fu possibile la formazione del Movimento Sociale Italiano (MSI) che traeva ispirazione dalla fascistissima Repubblica Sociale di Salò, complice dei nazisti nella persecuzione dei partigiani e in una sterminata sequela di crimini e orrori contro la popolazione civile in tutto il nord Italia.
L’MSI rappresentò la continuità del fascismo italiano fino a consegnare questo “patrimonio”, seppur rivisto per renderlo compatibile con il sistema politico odierno, prima ad Alleanza Nazionale e poi dopo alterne vicende all’attuale partito di Fratelli d’Italia, la cui massima dirigente, Giorgia Meloni, guida il governo italiano da oltre due anni
Si tratta del governo più reazionario del dopoguerra che può essere, a buon titolo, definito un governo a guida post-fascista. Lo stridore con i valori della resistenza ed il sacrificio dei partigiani non potrebbe essere più acuto.
Per sovrapprezzo questo governo, alla ricerca di consensi delle forze dell’ordine a cui vorrebbe delegare completamente la gestione muscolare delle mobilitazioni di piazza, e quelli della parte più retriva del suo elettorato promuove oggi una stretta repressiva antidemocratica contro i movimenti sociali, le mobilitazioni operaie e studentesche, contro gli immigrati e contro tutti i movimenti per i diritti civili. Il condensato di questi propositi è rappresentato dal Decreto sicurezza approvato dal Consiglio dei ministri. In altre parole, il governo traccia la traiettoria verso uno Stato di Polizia. Il suo bersaglio odierno sono le grandi mobilitazioni a sostegno della Palestina e contro il genocidio di Gaza.
La questione della resistenza è allora quanto mai attuale. Oggi si rispecchia nel sostegno ai combattenti della resistenza palestinese che, come fu per i partigiani, hanno tutto il diritto ad imbracciare armi per liberare il proprio paese dall’occupante sionista. Purtroppo, ma molto significativamente, di nuovo come fu per i nazisti contro i partigiani, i partigiani palestinesi vengono chiamati terroristi, sia dallo stato sionista che dagli imperialismi occidentali, per poter infierire su di loro con torture e omicidi, in spregio ad ogni legge di guerra.
L’ascesa di Giorgia Meloni ed il grande consenso a Fratelli d’Italia, appoggia un piede nel settore borghese e piccolo borghese più reazionario, che aspira a vedersi alleggerito il carico fiscale e vomita tutto il suo rancore contro gli immigrati. Con buona approssimazione è la parte di popolazione figlia del sostrato fascista che si è riversato nella repubblica del dopoguerra.
Questo però non spiega il consenso a Meloni da parte delle classi popolari e della classe lavoratrice. Qui, infatti, poggia l’altro sostegno al voto per i post-fascisti.
La decennale politica di collaborazione di classe da parte della cosiddetta sinistra radicale ha disorientato la classe operaia privandola progressivamente di un riferimento politico indipendente, ha gettato la classe lavoratrice nella rassegnazione con la conseguenza di una massiccia astensione elettorale, ed ha consentito la penetrazione in profondità tra le sue fila dei miasmi reazionari di stampo razzista contri i migranti, della guerra tra poveri e della fascinazione per un/una leader forte.
La sinistra radicale, nel corso degli ultimi decenni, ha, a più riprese, appoggiato i governi di centrosinistra, guidati prevalentemente dal Partito democratico. Il Partito della Rifondazione Comunista, nato dopo la liquidazione del PCI, e formazioni da essa derivate hanno condiviso le politiche di questi governi fatte di austerità, tagli e disinvestimenti nello stato sociale, di aumenti continui e progressivi delle spese militari, di promozione delle leggi di precarizzazione del lavoro, di norme repressive nei confronti dei migranti, di massicce defiscalizzazioni a vantaggio dei capitalisti mentre i salari cadevano in picchiata.
Queste scelte della sinistra radicale, ma in realtà solamente riformista, hanno aperto la strada ad ogni sorta di populismo reazionario, dal grillismo del Movimento 5 Stelle, al salvinismo della Lega ed infine a quello di Meloni e Fratelli d’Italia.
Si è così compiuto il “miracolo” di una Repubblica sedicente antifascista governata dagli eredi del fascismo.
La costituzione materiale del Paese con i salari fermi da decenni, la precarietà del lavoro, lo smantellamento della sanità pubblica, l’aumento delle spese militari, l’aumento della povertà assoluta e la ricomparsa del lavoro povero e sottopagato, smentisce nel modo più clamoroso le promesse contenute nella Costituzione. Una Costituzione che lungi dal nascere dalla resistenza ne significò invece l‘affossamento in nome di un compromesso tra i partiti della classe operaia, il PCI e il PSI e le forze politiche della borghesia a cominciare dalla Democrazia Cristiana, cosi che Piero Calamandrei, fondatore del Partito D’azione (partito antifascista a meta tra il liberalismo e il socialismo), membro dell’Assemblea Costituente del 1946, si senti di affermare che la Costituzione italiana fosse piuttosto “una rivoluzione promessa in cambio di una rivoluzione mancata” e che “Il dramma della Resistenza e del nostro Paese è stato questo: che la Resistenza, dopo aver trionfato in guerra, come epopea partigiana, è stata soffocata e bandita dalle vecchie forze conservatrici appena essa si è affacciata alla vita politica del tempo di pace, dov’essa era chiamata a dar vita a una nuova classe politica che riempisse il vuoto lasciato dalla catastrofe”. Una epigrafe della Resistenza tradita.
CHE FARE
La Resistenza, con le pulsioni rivoluzionarie che essa incarnava è stata tradita. Il nostro compito è allo stesso tempo rinnovarne la memoria soprattutto della sua componente proletaria non a caso la più negletta dalla storiografia del dopoguerra, e riprendere il filo spezzato della sua tensione verso un rivolgimento non solo del regime fascista ma anche e soprattutto di quel regime sociale che aveva spianato la strada al fascismo, il regime dominato dai padroni.
Pur nel quadro del disincanto di massa nei confronti di un rivolgimento sociale nel nostro Paese oggi che abbiamo lo sguardo sgombro dagli inganni dello stalinismo, come non fu purtroppo per i partigiani, e abbiamo visto la socialdemocrazia governare per conto dell’interesse del grande capitale, possiamo attingere all’insegnamento più vero della Resistenza. Far vivere questo insegnamento nelle lotte sociali e civili e soprattutto nella costruzione del fronte unico della classe lavoratrice, nella radicalità delle sue forme di lotta, nelle sue possibili conquiste e con la prospettiva di un’alternativa di società. Un’alternativa di società e conquiste che possono essere garantite solamente da un tipo completamente diverso di governo: il governo delle lavoratrici e dei lavoratori basato sulla loro forza organizzata
Ma quell’insegnamento va oltre e ci parla della necessita di dare uno sbocco rivoluzionario a quelle lotte.
Proprio perché alla Resistenza manco una direzione rivoluzionaria all’altezza dei compiti storici che le si ponevano di fronte, è necessario oggi costruire il partito rivoluzionario in Italia, l’unico che sia in grado di risolvere il problema della direzione del movimento operaio, l’unico che, in ultima analisi, possa costituire lo strumento necessario della rivoluzione italiana e che, inserito nella costruzione dell’internazionale rivoluzionaria, possa così contribuire alla rivoluzione mondiale
Il PCL da oltre 18 anni impiega tutte le sue forze ogni giorno per questo scopo, a livello nazionale così come a livello internazionale, incarnando così, nel migliore modo possibile, la migliore eredità della Resistenza ad ottanta anni dal 25 aprile del 1945.